global nf conference 2024

GLOBAL NF CONFERENCE 2024

The EGG Brussels – Belgium
June 20-25, 2024

Organizzatore: CHILDREN’S TUMOR FOUNDATION (CTF)

Siamo stati alla Global NF Conference 2024.

Oltre 1000 clinici e scienziati da ogni parte del mondo, dagli Stati Uniti, dalla Cina, dal Medio Oriente, dalla Russia, dall’Asia e dall’Europa hanno presentato per cinque giorni in una lunga serie di conferenze i più degni di nota e all’avanguardia risultati della ricerca scientifica che conta sulle neurofibromatosi.

Al cospetto di tali instancabili energie e menti geniali, abbiamo potuto apprezzare la grammatura della Scienza che non si ferma mai, e le ragioni per cui la Speranza non deve mai, come pazienti e familiari di pazienti, venirci a mancare.

Prima di passare in rassegna alcuni dei temi e delle ricerche presentati, una riflessione è necessaria.

Ha a che fare con i tempi lunghi della ricerca scientifica.

La persona estranea alle dinamiche della scienza si aspetta, giustamente, il prodotto finito e funzionante – il nuovo farmaco prodigioso pronto all’uso.

La ricerca scientifica però è lenta; costante ma lenta. È fatta di scoperte, tentativi su tentativi, fallimenti, nuove idee da mettere alla prova dei fatti, e il tutto è complicato nel caso di una malattia rara, dove scarseggiano investimenti e pazienti da monitorare e reclutare negli studi.

Ci vogliono circa 12 anni perché un farmaco raggiunga i pazienti dal momento della sua progettazione e a seguire le varie fasi della sperimentazione – oltreché miliardi di dollari di investimenti -, e anche se i tempi possono beneficiare di qualche abbreviazione nel caso dei farmaci per le malattie rare, i cosiddetti farmaci orfani, si parla comunque di tempi lunghi.

Ma prima di arrivare a disegnare un farmaco bisogna raccogliere una serie di studi preliminari complessi da realizzare e altrettanto lunghi da seguire: bisogna individuare i meccanismi profondi, molecolari, che sono stati la causa del danno e che sono i bersagli a cui tali farmaci dovranno puntare.

Il report che avete tra le mani non affronta le sessioni dedicate alla NF1 durante la Conferenza, e tiene conto sia delle ricerche in corso, ancora precliniche, sulle possibili armi terapeutiche, sia di risultati già conseguiti, disponibili come novità di cura, o in procinto di diventarlo. Volutamente si è cercato di tenersi quanto più possibile a distanza da concetti che potrebbero risultare troppo addentrati e tecnici, mantenendo però fede allo scopo di partenza: consegnare al Paziente gli strumenti essenziali per essere autonomo, avere autonomia di giudizio, e non rimanere in una posizione passiva davanti al medico.

SCHWANNOMATOSI

ESPLORANDO L’INTERAZIONE TRA IL METABOLISMO DEI LIPIDI E IL GENE LZTR1 NELLE PATOLOGIE DEL SISTEMA NERVOSO PERIFERICO

-Quali sono le conseguenze funzionali della mancanza del gene LZTR1 nel sistema nervoso periferico?

-Come la mancanza del gene LZTR1 porta a sviluppare dolore neuropatico?

-Qual è il meccanismo molecolare attraverso cui LZTR1 esercita la sua funzione nel metabolismo lipidico?

La schwannomatosi è caratterizzata da un sintomo prominente: il dolore neuropatico.

L’ipotesi di partenza di questa scoperta era che dovesse esservi una implicazione tra il deficit genetico di LZTR1 e il dolore neuropatico, e tuttavia questa associazione non trovava una spiegazione. Utilizzando un modello di topo con il gene LZTR1 spento, nelle cellule di Schwann (di cui è fatta la guaina di mielina che riveste le fibre nervose), sono state condotte puntuali analisi molecolari. In particolare, le analisi del nervo sciatico di questi topi ha rilevato una alterata e disfunzionale struttura della guaina, e una risposta infiammatoria che viene spesso riscontrata nelle malattie che portano a una perdita di mielina.

Ma cosa centra il metabolismo dei lipidi?

I lipidi sono i grassi, e questa guaina di mielina è costituita da grasso.

Ed ecco che le analisi hanno portato a scoprire un nuovo ruolo del gene LZTR1 nella regolazione del metabolismo lipidico, e quando il gene viene a mancare oppure non è funzionante, nasce una disfunzione, che si riflette anche nel dolore neuropatico.

DIAGNOSI E GESTIONE DEL DOLORE NEUROPATICO CRONICO

Michelle è una donna adulta che intorno ai 25 anni ha cominciato ad accusare disturbi alla gamba. Solo dopo una serie di visite specialistiche, e un definitivo consulto con un chirurgo ortopedico, all’età di 30 anni le è stata diagnosticata la schwannomatosi. Michelle è un grande esempio di resilienza è di energia positiva, nonostante il dolore cronico e disagi associati conduce una vita attiva, partecipa alle maratone ed è un modello di ispirazione per gli altri e per chi è affetto dalla sua stessa patologia.

Il dottor Rice ha una lunga esperienza nella ricerca del dolore, anche neuropatico, e clinica, anche maturata in anni di servizio nel contesto militare, attraverso lo studio e la gestione dei soldati tornati dai teatri di guerra con traumi, ferite, amputazioni.

Quando si parla di dolore, bisogna distinguere il dolore acuto (di breve durata) da quello cronico. In merito al dolore cronico – che è quello che interessa di più patologie come la schwannomatosi, particolarmente legata alle mutazioni del gene LZTR1 E SMARCB1 – è opportuno individuare tre principali meccanismi.

DOLORE NOCICETTIVO:

E’ un dolore che deriva da un danno effettivo o presunto a un tessuto non nervoso, a causa dell’attivazione dei nocicettori. Questi sono recettori sensoriali che segnalano lesioni tissutali trasmettendo la sensazione di dolore al sistema nervoso. Si trovano nella pelle, nei muscoli, nelle articolazioni, negli organi interni, nei vasi sanguigni. Vengono stimolati da tali, scottature, traumi vari, pressione intensa, sostanze chimiche irritanti e potenzialmente dannose.

DOLORE NOCIPLASTICO:

Dolore che deriva da un’alterata nocicezione malgrado non ci siano prove di un reale o paventato danno tissutale che causa l’attivazione dei nocicettori periferici.

DOLORE NEUROPATICO:

Dolore causato da lesioni o da disturbi del sistema somatosensitivo.

Il dolore neuropatico NON è un singolo disturbo, ma una sindrome che coinvolge un ampio spettro di disturbi e lesioni, i quali si manifestano con una serie di sintomi e segni.

Quali sono le condizioni associate al dolore neuropatico?

-Traumi al sistema nervoso
-Neuropatie periferiche (metaboliche – come il diabete – tossiche, alimentari)
-Infezioni (HIV, Herpes zoster)
-Esposizione al freddo
-Tumori
-Compressione sui nervi
-Canalopatie genetiche (malattie che coinvolgono i canali attraverso cui passano gli ioni come il calcio, il potassio, il sodio…)
Quali sono le possibili sedi del dolore neuropatico?
-Mani e piedi
-Faccia
-Pelle
-Secondo uno schema emicorporale (metà corpo)
-Grandi innervazioni (il nervo sciatico, ad esempio)

GESTIONE CLINICA

L’approccio suggerito è “primum non nocere”, che tradotto significa “per prima cosa, non nuocere”. Nella pratica clinica questo principio si traduce nella scelta terapeutica che arreca meno effetti collaterali al paziente.

Le possibili strategie di intervento nella gestione del dolore sono la terapia farmacologica, psicologica, la neuromodulazione, e la chirurgia.

Gli esiti degli interventi farmacologici sono generalmente modesti, e alcuni, ma non la maggior parte, dei pazienti rispondono ad ogni trattamento.

Tra i farmaci adottati, gli antidepressivi triciclici, che bloccano la ricaptazione dei neurotrasmettitori serotonina e noradrenalina, aumentando la loro permanenza nella fessura inter-sinaptica e quindi prolungando il loro effetto benefico. Il risultato è il miglioramento dell’umore, conseguente alla diminuzione della depressione ed al controllo del dolore neuropatico. Fra questi menzioniamo:

Pregabalin: agisce rallentando gli impulsi nel cervello che causano le crisi epilettiche e influenzando le sostanze chimiche che trasmettono i segnali di dolore attraverso il sistema nervoso.

Gabapentin: blocca l’ingresso del calcio nelle terminazioni nervose, riducendo la liberazione di neurotrasmettitori eccitatori.

Lidocaina: inibisce l’ingresso del sodio nella cellula, e con ciò impedisce la trasmissione del segnale elettrico che genera la sensazione di dolore. E’ impiegato come anestetico locale.

Capsaicina: composto chimico presente nel peperoncino. Nell’ambito del trattamento del dolore neuropatico, il suo maccanismo d’azione prevede un aumento del flusso del calcio nelle cellule, innescando con ciò una sensazione di bruciore. A tale stimolo segue una fase analgesica, in cui le fibre dolorifiche diventano insensibili agli stimoli nocicettivi di qualsiasi natura.

Tramadol: aumenta la disponibilità di noradrenalina nel midollo spinale, contribuendo così a ridurre il dolore neuropatico.

Oppioidi: agiscono su diversi livelli per migliorare il benessere dei pazienti affetti da varie forme di dolore neuropatico, ma sono da usare con estrema cautela per via della dipendenza elevata che creano.

Tossina botulinica: può essere un’altra opzione utile nel trattamento del dolore neuropatico, anche se il suo meccanismo d’azione non è ancora ben chiarito. La tossina, anch’esso somministrato solo da esperto personale medico, è in grado di paralizzare i muscoli, impedendone il rilascio di neurotrasmettitori coinvolti nella trasmissione del dolore.

Cannabis: IASP (Associazione Internazionale per gli Studi sul Dolore) scoraggia l’uso di cannabis e cannabinoidi per alleviare il dolore – non è dimostrata una reale efficacia in confronto ai trattamenti placebo (sostanza priva di principi attivi, somministrata però come se davvero avesse proprietà farmacologiche, che procura giovamento al paziente, nella misura in cui egli si autoconvinca del potere terapeutico derivato dal placebo, e che non sa di essere tale).

L’analisi dei dati sui pazienti ha mostrato che è talvolta possibile una combinazione di terapie farmacologiche per il trattamento del dolore neuropatico, in modo da raggiungere un effetto analgesico e aumentare la tolleranza al dolore. Anche in questo ambito, tuttavia, sono necessari ulteriori studi che diano maggiore evidenze di efficacia.

In generale, si è visto che l’efficacia delle terapie farmacologiche reca solo modesti benefici al paziente, e le reazioni avverse spesso ne limitano la stessa efficacia. Nondimeno, è corretto ribadire che non la maggior parte ma alcuni pazienti rispondono bene ad ogni terapia.

Quest’ultimo punto conferma la variabilità dell’espressione della malattia da un soggetto all’altro.

NF2

LA TERAPIA GENICA MEDIANTE VIRUS ADENOASSOCIATO (AAV) RIDUCE LA CRESCITA TUMORALE IN VITRO E IN VIVO NEI MODELLI DI SCHWANNOMA

Negli ultimi anni la terapia genica è emersa come potenziale trattamento per le malattie rare in cui è coinvolta la mutazione di un gene (monogeniche), come la NF2. In particolare, quelle che sfruttano come vettore i virus adeno associati (AAV), hanno dimostrato un certo profilo di sicurezza. Un AAV è un virus incapace di provocare una infezione, esso funziona solo come veicolo, che trasporta in modo sicuro ed efficace nella cellula il gene corretto senza causare malattie o altri danni. Una volta nella cellula, il gene corretto inizia ad esprimersi, producendo proteine normali e con ciò compensando il difetto genetico.

Lo studio presentato ha riportato la sperimentazione di questa procedura in vivo (in un organismo vivente) mediante iniezioni infratumorali in due schwannomi intrasciatici di modelli di topo del gene NF2, e in vitro (in un ambiente artificiale, in laboratorio) attraverso la trasduzione in cellule di Schwann (le cellule di cui è fatta la guaina che riveste le fibre nervose e da cui originano, ad eccezione dei meningiomi, i tumori correlati alla NF2) indotte derivate da paziente NF2 aventi tre distinte mutazioni del gene NF2 – cellule tumorali di schwannoma vestibolare umano e cellule cancerose di glioblastoma. I risultati sono stati sorprendenti: in entrambi i casi si è assistito ad un aumento dell’espressione del gene funzionante, e ad una riduzione della crescita tumorale. Un cauto ottimismo pervade anche questa sperimentazione, che è già stata approvata per entrare in una fase successiva.

IL POTENZIALE DELLA TERAPIA GENICA ANTISENSO PER INDURRE UNA FORMA PIU’ MITE DELLA NF2

Il nostro punto di partenza è il gene. Che cos’è un gene? Un frammento di DNA che contiene le istruzioni per fabbricare una tale proteina. Le proteine fanno funzionare le cose, fanno funzionare l’organismo. Nel caso della NF2, il gene in questione, il gene neurofibromina 2 (NF2) è mutato, quindi porterà alla costruzione della proteina (dal nome merlina) disfunzionale, responsabile della malattia e di quello che essa comporta. Come se fosse un piccolo quaderno, le sue pagine, i pezzi del gene dove sono scritte le istruzioni per costruire la proteina, si chiamano esoni. La mutazione è un errore di ortografia in queste pagine che rappresentano gli esoni, come dicevamo, uno svolazzo, che può capitare, casualmente o per trasmissione ereditaria. Alcune mutazioni NF2, hanno portato alla cancellazione dell’intero gene (delezione totale), ma non è il caso di questo studio e della sua strategia terapeutica. Altre, dette non senso (o troncante, o nulla) producono una proteina tronca, perché il codice per costruire la proteina si arresta, comportando la produzione di una proteina quindi non funzionale.

Come funzione questa tecnica di ingegneria genetica? Essa si serve di molecole sintetiche progettate per legarsi alle parole dell’istruzione che contengono l’errore al fine di correggerle.

La sperimentazione, preclinica, si è servita di cellule staminali che ospitavano proprio una mutazione non senso in uno di questi esoni (il numero 11) per corregerle.

Le mutazioni non senso, sono generalmente associate alle forme più severe della malattia, quindi la loro correzione, potrebbe essere una strategia particolarmente utile. Eliminando un pezzetto del gene che ospita la mutazione, si andrebbe ad evitare una manifestazione più grave della malattia, e salvare in parte la funzione della proteina merlina.

STUDIO DI FASE I/II DI UN VACCINO VEGFR PER I PAZIENTI NF2

Al momento non abbiamo ancora una vera cura degli schwannomi, e le opzioni risolutive sono la chirurgia – anche se poi questi tumori possono riformarsi -, e la radiochirurgia stereotattica, del resto sconsigliata in caso di tumori multipli e di dimensioni troppo grandi. Inoltre, anche se NON frequente, è stata associata ad essa in alcuni casi una trasformazione maligna. L’alternativa del futuro dovrebbe essere rappresentata dalla terapia farmacologica.

Recentemente, è stato condotto un interessante studio da un gruppo di ricerca in Giappone.

Lo studio della biologia molecolare degli schwannomi (o neurinomi) ha evidenziato che la loro crescita dipende fortemente dalla via angiogenica VEGF/VEGFR. Come via angiogenica si intende il processo fisiologico che normalmente provvede al mantenimento dei vasi sanguigni, Si attiva quando un molecola chiamata VEGF inviata da specifiche cellule di un qualsiasi tessuto di un organo, viene captata dal “recettore” chiamato VEGF R presente sulla superfice della cellula che costituisce il vaso sanguigno. Quando la molecola VEGF incontra il suo
recettore è come se a questa cellula arrivasse un ordine dal centro di comando “fai un vaso sanguigno”. Si ha così la formazione di vasi sanguigni.

Questo segnale è particolarmente attivo nei tumori come gli Schwannomi che necessitano di tanto sangue per essere alimentati durante la loro crescita sregolata.

Tale approccio sfrutta il potenziale terapeutico dell’immunoterapia per combattere i tumori.

Per contrastare le moderare la via angiogenica, è stato adottato il bevacizumab, un anticorpo che attacca il VEGF, che è risultato efficace nel controllo degli schwannomi, nel loro restringimento e in un miglioramento dell’udito. Tuttavia, questo approccio negli anni ha mostrato i suoi limiti. Intanto la frequenza delle infusioni che condizionano in maniera significativa la qualità di vita dei pazienti, le reazioni avverse, la possibile resistenza al farmaco, e non ultimo un possibile effetto rimbalzo (crescita sostenuta del tumore) dopo la sospensione della terapia.

Il gruppo di ricerca giapponese ha pensato di progettare un vaccino, il cui compito è mettere fuori gioco non la molecola (VEGF), ma attaccare il recettore stesso, attraverso l’azione di linfociti T citotossici (LTC) che lo distruggono. [Questa esposizione rende più immediata la comprensione dell’azione a chi non possieda strumenti per comprendere tali argomenti, ma forse saremmo più precisi dicendo che: il cui compito è mettere fuori gioco non la molecola (VEGF), ma attaccare il recettore stesso, stimolando una risposta immune contro il recettore del fattore di crescita dell’endotelio vascolare (VEGFR), presente sulle cellule del tumore, in modo che il sistema immunitario del paziente possa riconoscerle come estranee ed attaccarle tramite i linfociti T citotossici (cellule della difesa) che lo distruggono.]

Qual è la differenza tra i due approcci, bevacizumab e vaccino anti VEGFR, aventi entrambi in comune l’inibizione della via angiogenica, e perché si ritiene più efficace il vaccino?

Bevacizumab inibisce la molecola segnale, con un meccanismo d’azione rapido ma di breve durata. Da cui le somministrazioni ogni 2/3 settimane per un tempo sostanzialmente indefinito. Il vaccino, invece, bersagliando il recettore entra in azione più lentamente (un paio di mesi), ma ha un effetto di lunga durata. Questo è un punto chiave a favore del vaccino.

Lo studio è in corso, ma disponiamo di risultati parziali della sperimentazione su una coorte di pazienti. Esso è stato somministrato per via sottocutanea nelle regioni infra-ascellare e inguinale, una volta a settimana, per quattro settimane, e poi una volta al mese per quattro mesi. Per valutare la risposta clinica, i pazienti che hanno aderito alla sperimentazione sono stati sottoposti prima e dopo la vaccinazione a controlli radiologici e ad esami della funzionalità uditiva, oltre che ad acquisizioni di cellule del sangue periferico (sangue venoso). La sperimentazione è stata condotta su 16 pazienti, di età compresa tra i 16 e i 63 anni. Non sono stati osservati effetti collaterali significativi, per lo più i pazienti hanno avuto reazioni cutanee nei siti di iniezione, mentre sembra che non ci siano problemi a livello renale e circolatorio. Complessivamente, i risultati in termini di efficacia sono stati positivi, e in alcuni casi anche migliori della somministrazione del bevacizumab, a cui alcuni pazienti non rispondevano.

Il vaccino può non essere efficace negli schwannomi che crescono troppo in fretta, per un meccanismo ancora non ben chiarito, e per un meccanismo ancora non ben chiarito questo riguarda soprattutto i pazienti più piccoli di età. Si pensa che alla base vi sia il fatto che, biologicamente, i tumori nei pazienti pediatrici tendono a crescere più velocemente rispetto ai pazienti più adulti. Questi primi risultati hanno mostrato anche una certa efficacia nel trattare i meningiomi. Altresì, non risulta efficace sugli schwannomi cistici. Gli schwannomi cistici sono un raro tipo di schwannoma (tumore benigno, va ricordato, che deriva dalle cellule di Schwann, le quali rivestono i nervi periferici, di cui fanno parte anche i nervi cranici), caratterizzati da una capsula fibrosa che contiene al suo interno materiale gelatinoso. Ma appunto, non tutti gli schwannomi sono cistici, e in ogni caso è possibile capirlo dalla diagnostica per immagini, come la risonanza magnetica o la TAC.

In conclusione, questa sperimentazione ha dimostrato che il vaccino anti VEGFR nei pazienti NF2/SWN è sicuro ed efficace, e che la memoria indotta nelle cellule della difesa (i linfociti T) può sopprimere a lungo termine la progressione tumorale.

Una possibile opzione, in futuro, potrebbe essere quella di trattare i pazienti con bevacizumab e vaccino in combinazione, in modo da aggredire con maggiore potenza i tumori.

Al momento sono state programmate ulteriori sperimentazioni cliniche, con l’obiettivo di ottenere l’approvazione in Giappone, dove si sta conducendo questo studio.

Brigatinib

La NF2 correlata a schwannomatosi (NF2/SWN, prima conosciuta come neurofibromatosi di tipo 2) è una sindrome che predispone allo sviluppo di tumori (schwannomi vestibolari, non vestibolari, meningiomi ed ependimomi). E’ utile ricordare che ad oggi non vi sono terapie approvate per questa patologia.

Brigatinib è un farmaco a bersaglio, che prende di mira una via di segnalazione per la proliferazione cellulare. La via parte da un recettore di membrana chiamato ALK che fa è parte del gruppo delle tirosino chinasi. Come abbiamo precedentemente spiegato per il VEGF R, i recettori sono proteine che ricevono ordini dall’esterno sotto forma di molecole che si attaccano al recettore e lo attivanop, ALK viene attivato quando arriva dall’esterno un ordine alla cellula di proliferare, ovvero di dividersi in cellule figlie. Come possiamo intuire, nei tumori questa via di segnale è molto attiva e poco regolata. Il brigatinib, inibendop la attivazione di ALK è in grado di contrastare la crescita tumorale, infatti è indicato nella terapia del carcinoma polmonare. L’idea è stata quella di usarlo off-label (ovvero senza indicazione precisa delle agenzie del farmaco FDA o EMA) di usarlo per curare gli Schwannomi.

Sulla base dei risultati preclinici di Brigatinib contro schwannomi non vestibolari e meningiomi, erano necessari ulteriori studi circa il suo utilizzo diretto contro diversi tipi di tumori NF2/SWN.

In alcuni centri, in Italia e all’estero, Brigatinib è già utilizzato nella pratica clinica in pazienti NF2/SWN, ma nondimeno gli studi, sulla sua efficacia, sulla risposta dell’udito, e sulla sicurezza proseguono.

L’ultimo studio condotto dal Dott. Plotkin, uno dei grandi attesi alla Global NF Conference 2024 di Bruxelles, è stato pubblicato dalla prestigiosa New England Journal of Medicine proprio ad apertura della conferenza.

La sperimentazione è stata effettuata so 40 pazienti con tumori progressivi (10 schwannomi vestibolari, 8 schwannomi non vestibolari, 20 meningiomi e due ependimomi). I risultati sono stati incoraggianti, e le immagini radiografiche hanno mostrato una stabilizzazione o una riduzione dei tumori, soprattutto schwannomi e meningiomi.

I risultati sono abbastanza incoraggianti, e le immagini radiografiche hanno mostrato una stabilizzazione o una riduzione della dimensione dei tumori, soprattutto per quanto riguarda gli schwannomi non vestibolari (85% di assenza di progressione a 12 mesi) e i meningiomi (77% di assenza di progressione a 12 mesi).

In misura minore sono stati i risultati legati alla funzionalità uditiva (miglioramento oggettivo nel 35%), ma sono necessarie sicuramente ulteriori conferme.

Sul piano della sicurezza sono stati osservati effetti collaterali non gravi o comunque spesso facilmente gestibili dai medici.

Il trattamento con Brigatinib, dunque, ha mostrato efficacia contro più tipi di tumori nei pazienti con NF2.

Prima, però, che possa essere considerato per un uso più ampio e sicuro, è necessaria una valutazione più completa.

Il trattamento con Brigatinib, dunque, è risultato essere efficace contro più tipi di tumore – anche più di Avastin, – nella misura in cui la sperimentazione ha rilevato una risposta radiologica su alcuni tumori legati alla NF2, laddove Avastin era stato inefficace – ed ha ricevuto l’investitura della stessa Children’s Tumor Foundation, la fondazione statunitense e da qualche anno europea, che ha organizzato la Conferenza.

In conclusione – ed è questo il vero grande risultato della ricerca – si è visto che non esiste un trattamento unico efficace per tutti. Sebbene vi sia una tendenza generale, poi ogni paziente risponde individualmente a una terapia. Ed ecco l’importanza, e la necessità, di trovare sempre nuove strade, di ampliare l’arsenale di terapie a disposizione.

Dr. Luca Miola, Comitato Tecnico Scientifico di NF2 Project APS
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